riflessioni a voce alta sull’ esecuzione coattiva delle ordinanze di chiusura. nota operativa di Ag Scelto Ludovico Di Maio

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Chi si occupa, come il sottoscritto[1], di Polizia Commerciale inevitabilmente si ritrova sulla scrivania le ordinanze di chiusura di attività commerciali o di pubblici esercizi redatte dal Dirigente dell’Ufficio Commercio, scaturite da verbali amministrativi propri o di altre forze di polizia per assenza del titolo abilitativo; tuttavia quando si rivolge ai propri superiori per avere indirizzi operativi su come rendere esecutive tali ordinanze (sulla cui legittimità talora vi sarebbe da scrivere un libro), partendo dal presupposto che solo una piccola percentuale vi ottempera in maniera spontanea, spesso ci si ritrova a dover applicare procedure fantasiose al limite della legalità e del diritto, o talvolta procedure pietrificate negli anni,  secondo il principio “abbiamo sempre fatto così e nessuno ci ha detto mai niente”. Da tali presupposti nasce l’esigenza di approfondimento del tema e la necessità di creare una modulistica (fornita in formato Word per le opportune modifiche)  di facile fruizione che aiuti e supporti l’operatore nel suo agire quotidiano.

L’assenza di una normativa chiara ha sempre rappresentato un ostacolo nella procedura dell’esecuzione coattiva nell’applicazione delle sanzioni relativa alle ordinanza di chiusura delle attività produttive,  laddove la chiusura è indicata come sanzione accessoria della sanzione pecuniaria principale. Nelle attività, disciplinate dal TULPS, anche per quelle che nel corso degli anni sono state demandate agli enti locali, l’articolo 17 ter dello stesso, in maniera cristallina prevede il richiamo alla sanzione di cui all’art 650 del codice penale per l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità.

 In tali ipotesi, quindi, dopo aver accertato l’avvenuta notifica del  provvedimento di chiusura, in caso di inottemperanza si procederà con verbale di accertamento di inottemperanza, applicazione della sanzione di cui all’ art 7 bis della 267/2000, contestuale diffida di 3 giorni ai sensi dell’art 5 TULPS, (Verbale Modello 1) e come ultima ratio l’applicazione del 650 CP con eventuale ( ..se del caso…) sequestro penale dell’attività (LOCALE) mediante apposizione di sigilli. Tale procedura ad oggi è ampiamente applicata e supportata da giurisprudenza consolidata.

Il caso più controverso

riguarda le attività commerciali disciplinate da leggi regionali, o in mancanza, dal D. Lgs 114/98.  In esso non vi è accenno all’esecutorietà dei provvedimenti e a questa mancanza sopperisce in parte l’articolo 21 ter della L 241/90 che tuttavia sancisce l’obbligo generico della esecutorietà secondo cui qualora  l’interessato  non  ottemperi,  “le pubbliche  amministrazioni,  previa   diffida,   possono   provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalita’ previste dalla legge.” Di fatto la norma rimanda a modalità che non sono specificate. Alcuni illustri autori ritengono anche in questa ipotesi configurabile l’applicazione dell’articolo 650 cp (tesi sostenuta dalla Risoluzione Ministero Attività Produttive 4 ottobre 2002 prot. 512174) mentre altri propendono per il sequestro amministrativo “dell’ATTIVITA’ ” come ulteriore provvedimento in caso di inottemperanza.

E’ su tale questo punto lo scrivente propone una riflessione:  Il sequestro amministrativo  è un provvedimento che inevitabilmente si conclude alternativamente nei seguenti modi: o con la restituzione delle cose (comunque decorsi sei mesi ex art 19 della L. 689/81) o con al confisca amministrativa. Quest’ultima può essere disposta in riferimento alle  cose  che  servirono  o  furono  destinate  a  commettere   la violazione e deve essere disposta  la confisca delle cose che ne  sono  il prodotto, sempre che  le  cose  suddette  appartengano  a  una  delle persone cui e’ ingiunto il pagamento; inoltre se la P.A  entro 10 giorni dal ricorso al sequestro non provvede alla confisca, tale opposizione si intende accolta e quindi va restituito quanto sequestrato; di contro la stessa confisca non sembra ipotizzabile sia perchè dovrebbe necessariamente avere ad oggetto un bene materiale ( e il sequestro dell’ “ATTIVITA” non lo è, mentre quello del locale o della merce non è previsto dalla normativa) , sia perché porrebbe l’amministrazione nell’imbarazzo di gestire (attraverso alienazione, distruzione, devoluzione o altro) il bene oggetto di confisca.

In nessuno dei due casi la sanzione sembra essere proporzionata alla volontà del legislatore che ha previsto l’esecuzione coattiva, aggettivo che per taluni aspetti richiama la possibilità dell’uso della forza, mentre l’ipotesi di dover restituire l’oggetto del sequestro già da decimo giorno costituisce il motivo per cui tale procedura appare inadeguata rispetto ai fini che persegue.

Chi scrive, anche confortato da pareri di taluni comandanti, ipotizza al tal proposito, dopo il verbale di inottemperanza, applicazione della sanzione di cui all’ art 7 bis della 267/2000, contestuale diffida di X giorni  ai sensi dell’art 21 ter della 241/90 (Verbale Modello 2), una semplice, ma più incisiva apposizione fisica di sigilli senza tuttavia procedere a sequestro. L’apposizione a, seconda dei casi, può riguardare la serranda (senza magari  precludere altre vie di accesso essendo la merce e il locale dell’attività non gravati da sequestro)  il registratore di cassa, un’area della struttura o altro al fine di assicurare la non prosecuzione dell’attività senza incorrere nella violazione delittuosa di cui all’art 349 CP a cui si può aggiungere il sequestro penale.

Del resto l’apposizione di sigilli senza sequestro (Verbale Modello 3) è contemplata già dal codice civile e da altri casi ( si pensi ai sigilli apposti ad una casa in seguito a uno sfratto coattivo, o alle urne sigillate la sera prima delle elezioni…)

Con riferimento alla fattispecie criminosa ex art 349 CP in esame, si sono sviluppati nel tempo orientamenti giurisprudenziali che offrono diverse soluzioni quanto alla corretta individuazione delle condotte che possono integrare il reato stesso:

  • secondo una prima ricostruzione, minoritaria, “qualora i sigilli non siano apposti per una delle finalità tassativamente indicate nell’art. 349 c.p. (assicurare la conservazione o l’identità di una cosa), non è configurabile il reato in detta norma previsto” (Cass. pen., sez. III, 9 luglio 1982, n. 7934; v. anche Cass. pen., sez. III, 14 ottobre 1999, n. 13710). Pertanto, la manomissione dei sigilli dovrebbe essere punita solamente nell’ipotesi in cui gli stessi siano stati apposti per impedire l’alterazione del bene, e non anche nel caso in cui essi siano volti ad impedirne l’utilizzo (ad esempio, nell’ipotesi in cui essi si siano resi necessari al fine di attestare l’inagibilità di un immobile, o di impedire il proseguimento di un’attività commerciale o artigianale iniziata senza la prescritta autorizzazione amministrativa);
  • secondo l’altro prevalente orientamento, al contrario, i sigilli non hanno, in sè, la funzione d’opporre un impedimento fisico e materiale all’uso ed all’accesso del bene, ma solo di rendere palese la volontà della Pubblica Amministrazione o dell’Autorità Giudiziaria di assicurarne la conservazione dell’identità e la conseguente indisponibilità. Pertanto, “il reato di cui all’art. 349 c.p. è configurabile anche quando la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti per impedire l’uso illegittimo della cosa … perchè questa finalità deve ritenersi compresa in quella, menzionata nell’art. 349, di assicurare la conservazione o la identità della cosa” (Cass. pen., Sez. Unite, 26 novembre 2009, n. 5385).

Altra cosa è invece il divieto di prosecuzione dell’attività, provvedimento scaturito non da un verbale amministrativo per carenza del titolo abilitativo, ma per revoca dell’autorizzazione o per decadenza della SCIA. Spesso tali provvedimenti recano nell’oggetto “Dichiarazione di sopravvenuta decadenza della SCIA” mentre nel testo si ORDINA ad horas  la cessazione dell’attività con il richiamo all’art 21ter L. 241/90 ( al 650 cp nei casi di pubblici esercizi) in caso di inottemperanza; il verbo ORDINA, tipico dell’ordinanza, puo’ indurre in errore un operatore poco attento che, nel caso accerti che l’attività sia aperta,  dovrebbe invece, ad avviso di chi scrive,  procedere immediatamente alla contestazione della mancanza del titolo per poi attendere la “vera ordinanza” per attivare la procedura descritta sopra. In luogo del verbo ordina sarebbe opportuno l’adozione di termini quali “DISPONE il divieto di prosecuzione dell’attività ed AVVISA  che in caso di inottemperanza troveranno applicazioni le sanzioni previste dalla normativa vigente per assenza del titolo abilitativo”.

     Ludovico Di Maio



[1] Ag Scelto Ludovico Di Maio; Polizia Municipale Giugliano in Campania (NA)

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