Mobbing e trasferimento al cimitero

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Tra i molteplici profili delle condotte da mobbing, di recente trattatati dall’ottimo Pietro Cucumile , oggi ne aggiungiamo un altro a metà strada tra il comico ed il tragico.

Lo spunto è dato da Cass., sez. Lav., 27/01/2017, n. 2142 che affrontando il caso di un Agente di Polizia Municipale, trasferito “al cimitero”, ne ha tracciato i contorni indivuandone i presupposti.

Il fatto. Con un ordine di servizio  adottato dal capo Area Tributi (ufficio dove era stato trasferito l’Agente di P.M.), il lavoratore venne assegnato allo svolgimento delle “pratiche cimiteriali”, con sede stabilita “presso gli uffici cimiteriali”. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’entrata del cimitero” e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro. Ma ciò che più rileva è che il locale indicato dal Marino nel provvedimento come ‘gli uffici cimiteriali collocati all’esterno dell’Ente già dotati di strumenti informatici e di mobilia’, mentre nella realtà il luogo di lavoro risulta essere una stanza che presenta varie suppellettili ed oggetti che fanno pensare in maniera inequivoca ad una camera mortuaria annessa al cimitero”.

Sicché appare del tutto ovvio che, in primo luogo, fosse impossibile rendere la prestazione lavorativa in quel luogo, oltre che appare evidente che tale locale avesse una funzione al tempo stesso punitiva e ‘rappresentativa’, essendo volto a veicolare un messaggio chiaramente mobbizzante di cui era destinatario direttamente il lavoratore ed indirettamente anche gli altri, messaggio che né lui, né gli altri, colleghi o meno, avrebbero potuto fraintendere”.

La S.C., nel caso di specie, ha  rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il lavoratore, nella nuova posizione assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non riconducibili a profili della categoria di inquadramento (area C), ma riferibili addirittura a mansioni di area A, e successivamente venne privato del tutto delle mansioni.

Ma, quel che più conta, con riferimento al mobbing, la Corte di merito ha ricostruito, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativi. Al riguardo la S.C. ha affermato che per configurarsi  tale fattispecie devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).

Come non essere d’accordo quando ci si sente dire “ti mando al cimitero” !

 

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