La conducente di un autoveicolo eseguiva una manovra caratterizzata da imprudenza, negligenza imperizia nonché da violazione dell’articolo 145, comma 2, Codice della Strada, a seguito della quale si verificava un sinistro stradale: in occasione dell’incidente, infatti, la stessa, percorrendo con la sua auto una strada, eseguiva una manovra di svolta a sinistra all’altezza di una intersezione , non avvedendosi che, dall’opposto senso di marcia, sopraggiungeva un motociclo. Con la manovra di svolta a sinistra, l’autovettura impegnava la corsia di marcia del motociclo, che frenava bruscamente; il motociclista, dopo essersi staccato dalla moto, scivolava sull’asfalto e andava a impattare con la fiancata destra dell’auto. L’urto cagionava gravi lesioni al motociclista, il quale, tre mesi dopo, decedeva.
Alla conducente dell’autoveicolo veniva contestata l’imputazione di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale (“omicidio stradale”).
La difesa dell’imputata lamentava violazione di legge, con particolare riferimento alla mancata esclusione del nesso di causalità fra condotta ed evento mortale. Si duole la ricorrente del fatto che non sia stata ravvisata la portata interruttiva, sotto il profilo eziologico, delle condotte imperite e negligenti dei sanitari del nosocomio ove era statyo ricoverato il motociclista ferito, con specifico riguardo alla puntura esplorativa toracica eseguita sul medesimo prima che questi fosse dimesso dall’ospedale e che, secondo l’anatomopatologo che eseguì l’autopsia sul cadavere dello stesso, ebbe rilevanza primaria nel prodursi della morte: le condotte invasive poste in essere dai sanitari dell’ospedale a oltre due mesi di distanza dall’incidente, per come ritenuto anche in sede peritale, hanno integrato una causa sopravvenuta di per sé idonea a interrompere il nesso di causalità fra la condotta addebitata all’imputata e la morte della persona offesa.
Per cui alla conducente del veicolo non poteva essere contestato il reato di omicidio colposo.
Su tale questione è intervenuta la Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 28010, del 6 giugno 2017, ha confermato la condanna per omicidio stradale nei confronti della conducente dell’autoveicolo.
Infatti, secondo il costante indirizzo espresso in materia dalla Suprema Corte, l’eventuale errore dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l’incidente e la successiva morte del ferito: ciò in quanto l’errore medico non costituisce un accadimento al di fuori di ogni immaginazione, a maggior ragione nel caso in cui l’aggravamento della situazione clinica del ferito e la necessità di interventi chirurgici complessi risultino preventivabili in ragione della gravità delle lesioni determinate dall’incidente stradale. L’interruzione del nesso di causalità tra condotta ed evento può configurarsi solo quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo, incommensurabile e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta; ma ciò non può affermarsi quando, come nella specie, l’eventuale comportamento negligente di un terzo soggetto trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui.
Nel caso di che trattasi, peraltro, la ricorrente si limita a richiamare, quale elemento deponente per il sopravvenire di un fattore eziologico avente portata interruttiva, quanto sostenuto dall’anatomopatologo che eseguì l’autopsia, secondo il quale il fatto che venne praticata al ferito una puntura esplorativa toracica avrebbe avuto rilevanza “primaria” nel prodursi dell’evento mortale; ma, da un lato, ciò non consentirebbe comunque di affermare che tale condotta terapeutica si sarebbe collocata quale causa (sopravvenuta) introduttiva di un rischio eccentrico ed avulso da quello originariamente introdotto dalla condotta colposa della ricorrente, piuttosto che come (eventuale) concausa dell’evento; dall’altro, le conclusioni dei periti e dei consulenti del Pubblico ministero hanno escluso che la condotta terapeutica censurata dalla ricorrente abbia avuto rilevanza nel decorso causale che condusse alla morte del motociclista.
Per cui la conducente del veicolo deve essere condannata per il reato di omicidio stradale.