Corte di Cassazione, Sezione Quinta, sentenza n. 20560 depositata il 19 maggio 2014: la postalizzazione delle multe non integra alcuna ipotesi di reato e men che mai due.

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Se questo è lo spessore medio dei Magistrati inquirenti, qualcuno ci salvi!

Meno male che a Roma (ma ne  caso che ci occupa anche a Milano) ci sono dei Giudici!

Sono quelli che siedono nella Cassazione penale (quanto a Roma, ovviamente) e che, fanno regola del loro lavoro leggere attentamente gli atti processuali onde capire se ci sia rilevanza penale o meno di alcuni comportamenti, ritenuti -nell’ansia dell’evidenza mediatica che appartiene a tanti piccoli pubblici ministeri di provincia- gravemente espressione della distorsione della funzione pubblica, con grave torto per la Giustizia.

La Corte di Cassazione, Sezione Quinta, con sentenza n. 20560 depositata il 19 maggio 2014, ha ritenuto di dover rigettare il ricorso (giubilato dal collegio anche come: “alle soglie dell’inammissibilità”) proposto da un pubblico ministero che mal aveva digerito la sentenza del tribunale del riesame di Milano che aveva annullato la misura cautelare applicata ad un onesto operatore di polizia locale, reo, secondo la pubblica accusa di aver commesso i delitti di falso e di truffa.

La sostanza la contestazione dei reati ascritti al malcapitato operatore oscilla tra il demenziale ed il ridicolo: la gestione massiva dei verbali praticata attraverso la postalizzazione, produceva falsi seriali con truffa ai danni dei cittadini.

Questi i termini testuali dell’imputazione, per come trascritta nella sentenza della Cassazione:

“Con ordinanza del 19 settembre 2013 il Gip del Tribunale di Busto Arsizio disponeva la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pubblico ufficio o servizio, per mesi due, nei confronti di R.L., agente di polizia locale del Comune di Casorate Sempione, in qualità di pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni  di organo accertatore delle violazioni del codice della strada, indagata ‐ in concorso con altri ‐ del reato di cui all’art. 478, commi 1 e 2, cod. pen. perché, supponendo l’esistenza dell’originale di verbali di accertamento del codice della strada indicati nel capo d’incolpazione, per complessivi 3.972 atti, in realtà mai redatti, simulavano il rilascio di copia legale conforme da notificare al trasgressore; in particolare, dopo avere omesso di redigere l’originale dei suddetti verbali di accertamento dell’infrazione stradale, provvedevano all’inserimento dei dati nel sistema “Servizio ……” in uso al Comando in tal modo emettendo false copie conformi relative ad atti pubblici inesistenti, che venivano successivamente stampati e notificati, per il tramite della ditta …… , ai responsabili delle violazione del codice della strada; e del reato di cui agli artt. 640, commi 1 e 2, e 61 n. 9 cod. pen., perché con artifici e raggiri consistiti nel rilasciare copie conformi di verbali di accertamento inesistenti, nell’indicare, nelle suddette copie “autentiche” dei verbali, importi da versare ulteriori rispetto alla sanzione, a titolo di “spese di gestione” violando l’articolo 210, comma 4, del.lvo n. 285 del 1992, che prevede la possibilità di addebitare in capo al trasgressore unicamente le spese di notifica ed accertamento; infine nell’addebitare al responsabile, in violazione della delibera comunale n. 7 del 2011, in presenza di una prima notifica non andata a buon fine per cause non imputabili ai destinatari (errore targa, omessa verifica della residenza del trasgressore), il raddoppio, la triplicazione e quadruplicazione delle spese di notifica di gestione, queste ultime riferite in  realtà ad attività inesistenti e mai effettuate; in tal modo, procuravano un ingiusto profitto con altrui danno quantificabile in complessivi € 88.699, consistiti nelle somme richieste al trasgressore in assenza di un valido titolo giustificativo”.

Rispetto a tale delirio investigativo, i giudici della suprema corte affermano, con la sentenza qui epigrafata:

 

“Le censure che lo sostanziano sono, comunque, destituite di fondamento. Ed invero, il giudice a quo ha diffusamente spiegato le ragioni della ritenuta insussistenza del reato di cui all’art. 478 cod. pen., mancando il presupposto fattuale della contestazione, ovverosia l’ipotizzata inesistenza dell’originale, ossia  dell’atto di accertamento, e la falsa predisposizione di copie autentiche. Infatti, gli atti di cui si assume l’insussistenza erano, invece, esistenti, siccome redatti in forma digitale ed automatizzata, così come consentito dall’art. 383 c.d.s. (dpr. 16 dicembre 1992, n. 495), mediante la creazione di fi/es immodificabili  inseriti nel sistema operativo della Comune di Casorate Sempione, recanti le indicazioni di cui all’art. 3 comma 2 d.lgs n. 39 del 1993, così come esattamente rilevato dal giudice del riesame. Si tratta, in particolare, di un sistema di redazione del verbale consentito dalla legge per i casi in cui pubblico ufficiale non possa procedere alla contestazione immediata dell’addebito al trasgressore del codice della strada, in linea peraltro con il generale sistema di informatizzazione ed automatizzazione degli atti della pubblica amministrazione, previsto dagli artt. 20 e seguenti dei Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82).  Parimenti ineccepibile é la ritenuta insussistenza dei reato di truffa, sotto il duplice, motivato, profilo che l’aggravio delle “spese di gestione” era previsto da apposita delibera comunale e non era, dunque, imputabile agli agenti di polizia municipale, responsabili dell’accertamento, così come non erano loro imputabili gli ulteriori costi di notifica, posto che la procedura notificatoria, demandata ad una società di riscossione, esulava dalla sfera delle relative attribuzioni”.

Orbene, la questione pende in fase cautelare, ma c’è da confidare che la pesante sentenza qui rassegnata possa contribuire a definire favorevolmente per le persone coinvolte l’intera vicenda.

Resta il fatto che, per grossi palmi e con beneficio di ignoranza, quasi tutta la Polizia Locale italiana gestisce i verbali di cui al Codice della strada con il medesimo metodo.

Delle due l’una: se il sostituto procuratore della Repubblica di Busto Arsizio che ha sollevato il caso è (a voler essere benevoli) una isolata persona estremamente fantasiosa nel riconoscere ipotesi di reato, probabilmente storie come questa non avranno a ripetersi. Se, al contrario, si generasse una “moda” nazionale su questa ipotesi accusatoria, ben facciano tutti a prendere le proprie precauzioni: avvocati esperti e disponibilità ad essere processati…. pur senza alcun motivo valido o rappreso in termini di serietà, quanto meno alla luce di quanto si legge dagli atti giudiziari sottoposti all’attenzione del caro e paziente lettore.

Pino Napolitano

P.A.sSiamo

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