Fugge dopo aver urtato, con lo specchietto retrovisore, una persona mentre camminava sul ciglio della strada. Nel reato di omissione di soccorso a seguito di incidente stradale, il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alle persone e la necessità del soccorso. La consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso può assumere la forma del dolo eventuale. E’ quanto affermato dalla IV sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 17690 del 28 aprile 2015.
IL FATTO Con sentenza la Corte di Appello di Brescia ha riformato unicamente sul punto concernente il beneficio della non menzione della condanna, che ha concesso, la pronuncia emessa nei confronti di un automobilista dal Tribunale di Brescia, che ha riconosciuto il medesimo colpevole dei reati rispettivamente previsti dai commi 6 e 7 dell’articolo 189 del codice della strada per essersi dato alla fuga e non aver prestato l’assistenza a un pedone , persona ferita dopo che alla guida di un’autovettura aveva urtato da tergo con lo specchietto retrovisore la stessa mentre camminava sul ciglio della strada. Risultando pacifica la dinamica dei fatti, la Corte di Appello ha respinto le doglianze difensive incentrate sulla omessa contestazione del pur ritenuto reato di cui all’articolo 189, comma 6 del codice della strada nonché sulla mancanza di consapevolezza da parte dell’imputato dell’aver urtato il pedone. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputato deducendo erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 522 cod. proc. pen.,
essendo stato condannato l’imputato per il reato di fuga nonostante ciò non fosse stato oggetto di contestazione. Con un secondo motivo deduce erronea applicazione dell’articolo 189, commi 6 e 7 del codice della strada e travisamento delle prove. L’esponente lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto sussistente l’elemento soggettivo richiesto dal reato pur in assenza di adeguati elementi probatori ed anzi in presenza di circostanze, connesse al comportamento successivo tenuto dall’imputato, che dimostrano che questi non aveva avuto consapevolezza di aver urtato un pedone procurandogli lesioni. Con un terzo motivo si lamenta erronea applicazione degli articoli 132 e 133 cod. pen., per aver la Corte di appello confermato una pena determinata in misura ben superiore al minimo edittale senza che essa sia stata adeguatamente motivata. Né si comprende, aggiunge l’esponente, da quali elementi il giudice di prime cure abbia tratto la gravità del fatto, che certo non può essere determinata sulla base delle lesioni patite dalla persona offesa poiché essa è stata tempestivamente soccorsa e dunque, anche quando l’imputato si fosse avveduto del sinistro e avesse arrestato la marcia, il danno al pedone si sarebbe comunque verificato con l’entità registrata. Anche l’affermazione relativa alla capacità a delinquere del reo è contraddetta dal contestuale giudizio prognostico positivo sfociato nella concessione della sospensione condizionale della pena. La assoluta carenza di motivazione che sul punto si rinviene nella sentenza di primo grado non può essere colmata dall’attività supplente della Corte di appello.
LA DECISIONE DELLA CORTE Gli Ermellini ritengono il ricorso infondato. Per larga parte il ricorrente si è limitato alla riproposizione di questioni già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal giudice distrettuale. In merito alla presunta violazione del principio di corrispondenza tra la sentenza e la contestazione, la Corte d’appello ha rilevato che il reato di fuga era stato contestato in fatto nell’ambito della imputazione elevata dall’accusa; in essa infatti si legge che l’imputato “non ottemperava all’obbligo di fermarsi”. A fronte di tale osservazione, il ricorrente si è limitato a riproporre la questione senza prendere posizione in ordine alle ragioni offerte dalla Corte d’appello a sostegno della propria decisione e senza neppure allegare un pregiudizio subito dal proprio diritto di difesa . Con riferimento all’elemento soggettivo, la Corte di appello non ha assunto una ricostruzione giuridica diversa da quella alla quale ha inteso riferirsi il ricorrente medesimo e che trova l’avallo della giurisprudenza di questa Corte. È notorio che il reato di fuga previsto dall’art. 189, comma sesto del codice della strada, è un reato omissivo di pericolo, per la cui configurabilità è richiesto il dolo, che deve investire essenzialmente l’inosservanza dell’obbligo di fermarsi in relazione all’evento dell’incidente concretamente idoneo a produrre eventi lesivi alle persone, e non anche l’esistenza di un effettivo danno per le stesse. Il reato in parola si consuma con l’allontanamento dal luogo del sinistro e risulta pertanto irrilevante ai fini della integrazione della fattispecie tipica l’eventuale ritorno di chi si sia inequivocabilmente allontanato o il suo presentarsi presso gli uffici delle forze dell’ordine. Nel reato di omissione di soccorso a seguito di incidente stradale, per la più recente giurisprudenza di legittimità il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alle persone e la necessità del soccorso. Peraltro, l’orientamento prevalente aggiunge che la consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso può assumere la forma del dolo eventuale, “che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza. Ciò precisato, mette conto rilevare come, nonostante il ricorrente evochi l’erronea applicazione della legge penale, la doglianza concerne in realtà la valutazione delle prove svolta dalla Corte di appello. Questa ha ritenuto assolutamente inverosimile la tesi che l’imputato non avesse scorto la sagoma delle persone che si conducevano lungo il ciglio della strada, sì da scambiarle per un palo, rilevando che ciò era impossibile per la presenza dell’illuminazione assicurata dai fari dell’autovettura o, quand’anche questi fossero stati spenti, per quella minima visibilità che consente a un conducente comunque di procedere. Ha aggiunto che era altresì inverosimile che l’imputato non si fosse accorto dell’urto, dal quale era derivata la rottura dello specchietto retrovisore e l’ammaccatura della portiera, per la comune percepibilità del rumore causato dall’impatto. La Corte territoriale ha poi preso in considerazione anche il comportamento dell’imputato successivo al fatto, sul quale ha insistito l’esponente anche con il ricorso; argomentando in ordine alle ragioni per le quali non risultassero inequivoci nel senso auspicato dall’imputato il fatto di aver immediatamente cercato il pezzo di ricambio per lo specchietto retrovisore, di aver parcheggiato l’autovettura nei pressi di casa in modo visibile e non occultandola, di aver raccontato ai familiari solo di aver rotto lo specchietto senza saperne le ragioni. La motivazione resa al riguardo dalla Corte di appello appare non manifestamente illogica ed è quindi incensurabile in questa sede. L’esponente, da parte sua, sollecita una diversa valutazione di quelle medesime circostanze, manifestando così di non considerare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione.
In conclusione, anche il vizio di motivazione concernente il trattamento sanzionatorio è stato già portato all’attenzione del giudice di secondo grado, il quale ha in primo luogo evidenziato come la pena inflitta sia pari a un terzo del massimo è come sia quindi ben inferiore alla media edittale; ed ha inoltre ulteriormente spiegato le ragioni per le quali tale pena risulta congrua, facendo riferimento alla gravità delle lesioni subite dalla persona offesa ed al fatto che l’incidente era accaduto in piena campagna e quindi con maggior difficoltà dell’intervento tempestivo dei soccorsi. Alle censure mosse dall’esponente deve replicarsi che del tutto legittimamente la Corte di appello può integrare la motivazione resa dal primo giudice, posto che il giudizio di secondo grado si propone quale nuovo giudizio di merito; che è corretta la considerazione, ai fini della valutazione della gravità del reato, della gravità delle lesioni subite dalla persona offesa, perché essa denota la maggiore misura dell’offesa al bene tutelato; che non vi è alcuna contraddizione tra la concessione della sospensione condizionale della pena e una valutazione negativa della personalità dell’imputato ai fini della commisurazione della pena. Peraltro, nel caso che occupa, tale valutazione non è neppure stata espressa dalla Corte di appello, che ha fatto riferimento unicamente alla condotta dell’imputato e alle conseguenze di essa.