Ancora un intervento della Corte di Cassazione in materia di resistenza a pubblico ufficiale.
Il caso trattato dalla sentenza n. 4123, del 27 gennaio scorso, riguarda un soggetto che, fermato dalla polizia, ha aggredito gli agenti ripetutamente con spintoni e gomitate, continuando con tale comportamento anche durante il tragitto verso la Questura.
In tale situazione, si concretizza un solo reato ovvero una pluralità di reati di resistenza a pubblico ufficiale?
Secondo la consolidata giurisprudenza, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio.
La fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 337, codice penale, – giusta il chiaro dettato del precetto contenuto in detta norma – sanziona la condotta di colui che, con le modalità descritte dalla norma, si oppone al compimento, per quanto qui interessa, di un atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale.
Dunque, l’unicità o la pluralità di reati sono in diretto rapporto con l’unicità o pluralità di atti posti in essere nell’interesse dell’Amministrazione, indipendentemente dal numero di persone (pubblici ufficiali) che ad essi attendono.
Quanto precede comporta l’ovvio superamento della difforme tesi, in effetti sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità, anche recente,, secondo cui la resistenza, nel medesimo contesto, a più pubblici ufficiali non configura un delitto unico di resistenza, ma altrettanti reati quanti sono i pubblici ufficiali, giacché ia resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale. (
E’ di tutta evidenza che l’impostazione che qui si contesta focalizza la propria attenzione non già sulla condotta tipica delineata dalla norma incriminatrice, bensì sul numero di pubblici ufficiali coinvolti, sui quale si sofferma e che valorizza, così perdendo di vista il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall’articolo 337, codice penale, che è rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della P.A., per effetto della sanzione apprestata avverso l’opposizione ad un atto d’ufficio (o di servizio) che sia connotato da modalità violente o minatorie. Laddove l’offesa al pubblico ufficiale riveste carattere meramente strumentale rispetto all’interesse tutelato, senza peraltro che detta offesa rimanga priva di risposta da parte dell’ordinamento, posto che, nel momento in cui essa supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice – che vale ad integrare l’elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui ai più volte citato articolo 337, codice penale, essendo pertanto ivi assorbita – entrano in gioco (anche) le norme poste a presidio dell’integrità fisica dell’individuo.
Al fine di differenziare il caso dell’unicità da quello della pluralità di violazioni, sul diverso atteggiarsi del dolo in capo al soggetto agente, la giurisprudenza ha ancora affermato che perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese è necessario, quando si verifica tale condizione, un “quid pluris”, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone. Ne deriva che se l’azione è unica ed unico è l’atteggiamento psicologico che sorregge il comportamento del colpevole, unico è il reato che egli commette.