La distinzione tra sanzioni afflittive e sanzioni ripristinatorie, secondo il Consiglio di Stato.

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La sanzione in senso stretto, ovvero la sanzione pecuniaria disciplinata dalla L. n. 689 del 1981, costituisce reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria ed è inflitta nell’esercizio di un potere punitivo avente ad oggetto condotte, come avviene quando decide il giudice penale. A questa stregua, la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere “ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa, che presuppone una ponderazione di interessi”, atteso che “l’ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all’amministrazione” dovrebbe essere “esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione commessa ed alle condizioni soggettive dell’autore, restando escluso ogni giudizio di valore sugli interessi amministrativi tutelati dalla norma sanzionatoria” (Cass., sez. I, 14 novembre 1992, n. 12240, e Cass., sez. I, 15 dicembre 1992, n. 13246). Sul piano delle situazione giuridiche soggettive, tale discrezionalità (esercitata sulla base di criteri diversi, che prescindono dalla valutazione di qualsiasi interesse pubblico) fronteggia posizioni che – anche ai fini della giurisdizione – sono qualificabili di diritto soggettivo alla “integrità patrimoniale”. Sotto altro profilo, la sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo). Sull’altro versante, le residue sanzioni (“senso lato”) non ricomprese nella species appena delineata, alle quali si riconducono tradizionalmente le “sanzioni ripristinatorie” ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni amministrative in senso stretto, altrimenti rientrando nella disciplina di cui all’art. 20, L. n. 689 del 1981), costituiscono una manifestazione tipica di potere amministrativo autoritativo, in relazione al quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. A tali sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo), pure quando esse abbiamo carattere marcatamente punitivo.

La distinzione sopra delineata – desumibile dalla normativa nazionale – risulta coerente con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Proprio in considerazione dei principi da essa affermati in tema di qualificazione sostanziale della ‘pena’ (ex plurimis sentenze 8 giugno 1976, Engel c. Olanda; 26 marzo 1982, Adolf c. Austria, par. 30; 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, par. 27; 25 agosto 1987, Lutz c. Germania, par. 54; 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, par. 50; 22 febbraio 1996, Putz c. Austria, par. 31; 21 ottobre 1997, Pierre-Bloch c. Francia, par. 54; 24 settembre 1997, Garyfallou AEBE c. Grecia, par. 32), la Corte di Strasburgo ha precisato che non si configurino come ‘penali’, nel significato convenzionale del termine, quelle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che sono essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità, restaurando l’interesse pubblico leso (sentenza 7 luglio 1989, Tre Traktörer Aktiebolag c. Svezia, par. 46). Anche la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 276 del 2016, in tema di sospensione di una carica prevista dal D.Lgs. n. 235 del 2012) ha affermato principi da cui si desume la distinzione sopra delineata. In relazione a ‘conseguenze amministrative’ della commissione di un reato, la Corte, infatti, ha concluso nel senso che dal quadro delle garanzie previste dalla CEDU – come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non è ricavabile un vincolo ad assoggettare una misura amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di retroattività della legge penale, motivando proprio in ragione della natura non punitiva della misura amministrativa sottoposta alla sua attenzione. (Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 05-10-2017) 22-11-2017, n. 5420)

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